Come si crea una comunicazione ecosistemica?

Iniziamo a creare una comunicazione generativa invece che estrattiva.

Salvatore Iaconesi
Comunicazione Ecosistemica

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il diagramma di Shannon/Weaver

Eccoci qui: stiamo progettando il modo in cui il Nuovo Abitare comunicherà, e abbiamo pensato di ripartire dalle basi.

Generalmente quando si dice “comunicare” si pensa a questa immagine qui in cima, il diagramma di Shannon/Weaver: c’è qualcuno che deve far arrivare un messaggio a qualcun altro.

Per farlo, deve incarnare delle informazioni e diventare una sorgente di informazione: deve formulare un messaggio.

Questo messaggio deve essere codificato su un certo canale di comunicazione: deve essere tradotto/adattato, diventando così un segnale.

Attraversando il canale di comunicazione, ci possono essere vari tipi di interferenza/rumore: magnetica, può prendere male il cellulare, ci può essere troppo rumore nell’ambiente, e così via.

Quindi il messaggio che arriva dall’altra parte non sarà in generale lo stesso che è partito.

E, comunque, verrà a sua volta tradotto/adattato per adattarsi all’altra entità: il destinatario, diventando il messaggio ricevuto.

Può, inoltre, esistere un elemento di feedback che viaggia al contrario, magari su un altro media, che può essere utile per tante cose, tipo il capire quanto rumore c’era, se si capiva il messaggio e anche cosa si capiva.

Tutti questi passi sono semplici solo in apparenza: ci hanno scritto migliaia di libri.

Nessuno dei passaggi è scontato.

Le entità “sorgente” e “destinatario” possono essere umane, non umane, organizzazioni, elementi dell’ambiente, edifici…

Il messaggio, poi, è assolutamente misterioso: sono le mie onde cerebrali? Le parole che mi escono dalla bocca? Un disegno che faccio?
Qual è il confine tra il “messaggio” e il “segnale”? Perché se “penso” qualcosa, posso tentare di comunicare quel qualcosa parlando (modulando pressione dell’aria lungo il tempo per articolare le “parole” che intendo usare per esprimermi. Quali parole? Sono un mezzo capace di comunicare ciò che penso? Meglio altri suoni? Meglio la telepatia? Che altro? Quando si esce dall’umano le cose si fanno ancora più complesse), ma non è assolutamente detto che tutto quel che penso si possa comunicare parlando. Anzi si potrebbe essere abbastanza certi del contrario.

La traduzione per trasformare il messaggio in un segnale è, quindi, per ciò che abbiamo appena detto, un altro grande mistero della comunicazione, incluso il fatto di determinare dove finisca l’uno e inizi l’altra.

E poi c’è il “rumore”, che può essere anche esso molto incerto, oscillando dal dominio fisico — se sto urlando da un lato della piazza all’altro ci potrebbe essere troppo suono ambientale — a quello concettuale — per esempio, il media non è mai “neutro”, e di per sé facilita il passaggio di certi segnali e ne ostacola altri. Addirittura, quando si pensa a McLuhan, si dice che “il media è il messaggio”, con cui alludeva — forse in maniera leggermente troppo tecno-determinista — che non è poi così interessante il contenuto del messaggio, perché già il fatto che il media in cui viaggia è fatto in un certo modo implica entro una certa estensione cosa si possa ottenere dal messaggio, qualunque esso sia.

Fatto sta che un segnale arriverà dall’altro lato che deve essere decodificato e ritradotto, esponendo ad altri due passaggi misteriosi in maniera simile e contraria a quelli che abbiamo visto all’origine, fino al destinatario, che non è detto assolutamente che sia isomorfo alla sorgente: potrebbe avere altre culture, altre logiche, altri desideri, immaginazioni e aspettative, oppure essere un tipo di “essere” completamente differente, completamente inconfrontabile nella morfologia, corpo, intelligenza, capacità: è l’Altro, l’Alieno.

Anche l’ultimo elemento — il feedback — è profondamente misterioso, perché è essenzialmente un altro messaggio che viaggia nell’altra direzione, con tutte le incertezze che abbiamo appena descritto, ma al contrario. Inoltre non è definito a priori quale sia il feedback adeguato per le varie situazioni e i diversi obiettivi.

Dopo queste poche righe, sembrerebbe impossibile questa cosa che chiamiamo “comunicazione”.

E invece la facciamo tutti i giorni. Con maggiore o minore efficacia, ma tutto sommato in maniera abbastanza agile.

Questo misterioso diagramma, però, nonostante apra più domande di quelle a cui dà risposta (o forse è proprio per quello?), rimane forse il mattoncino di costruzione di base del modo in cui si studia la comunicazione:

“ci sono una sorgente e un destinatario, separati da un canale di comunicazione e si vuole far andare una informazione da una parte all’altra, il più esattamente possibile”

(nota: “esattamente” secondo chi? secondo la sorgente? e come se ne accorge la sorgente? predisponendo un feedback? secondo quali parametri, visto che conosce solo i suoi? pensateci bene e vi accorgerete facilmente che anche qui siamo di fronte a un certo numero di paradossi)

Così si progetta la comunicazione: scegliendo destinatari, sorgenti di informazione, il canale che c’è in mezzo e il feedback.

Praticamente è una azione militare in piena regola:

  • su chi (destinatario) voglio sganciare una bomba (messaggio)?
  • quale è la bomba (messaggio) più adatta ad essere sganciata per colpirlo (sorgente)?
  • qual’è il modo migliore di sganciare la bomba (scelta del canale di trasmissione) in modo da massimizzare la certezza di colpirlo (ridurre il noise incontrato)
  • come faccio a sapere se l’ho effettivamente colpito, così eventualmente la prossima volta correggo il tiro? (feedback)

Nonostante tutti questi misteri e incertezze, discorsi del genere (militari, violentissimi) si fanno ogni giorno in ogni ambito della comunicazione, che sia una grande agenzia o una riunione di condominio.

Non è una attività neutra: seguendo lo schema e, quindi, costruendo la comunicazione in questo modo militare, si diventa un po’ militari anche noi.

Diventa “normale”: la “norma”. Si fa così.

Pensate quando in questi schemi e procedure si aggiungono anche gli agenti computazionali, che non possono soffrire!

Sembra il preludio di Terminator.

E un po’ lo è, se guardiamo come si sta evolvendo la comunicazione ai giorni nostri: la nostra attenzione è diventata merce di scambio e un sito da bombardare, e gli agenti computazionali (algoritmi, AI… ) fanno il loro mestiere con assoluta efficacia.

Costruiamo insieme come si può fare una comunicazione ecosistemica

Nel Nuovo Abitare abbiamo pensato che sia interessante procedere in modo differente.

Cerchiamo di concettualizzare una “comunicazione ecosistemica”, invece di quella militare: generativa, invece di estrattiva.

Costruiamola insieme, se vi va, nelle prossime puntate.

Iniziamo subito:

Cosa, secondo voi, non c’è nel diagramma di Shannon/Weaver e che, invece, potrebbe essere utile per concettualizzare una “comunicazione ecosistemica”?

Avviamo le danze noi dando un paio di risposte:

  • il tempo
  • il contesto
  • il “desiderio” / la “tensione” (necessita di definizioni meno vaghe)
  • l’ambiente (basta il “rumore” per contenere l’ambiente e/o la società e gli altri elementi che possiamo scegliere per caratterizzare il contesto?)

Date qui sotto o accanto le vostre risposte, e la prossima volta ne parleremo e andremo avanti.

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