Ho il ciclo

Salvatore Iaconesi
8 min readFeb 19, 2021

Quante volte si dice, anche brutalmente.

Lasciami perdere, ho il ciclo.

Lo dicono donne e uomini, alcune volte in maniera volgare e sessista, descrivendo donne e uomini, parlando di momenti di antipatia, di acidità, di rabbia, tipo quelli che possono essere facilitati dalle alterazioni ormonali e fisiologiche che avvengono durante i giorni del ciclo mestruale.

Beh, in questo periodo il ciclo io ce l’ho.

Il ciclo della chemioterapia.

Ogni 30 giorni mi aspettano 5 giorni di 370mg di Temozolomide più una pasticca di farmaco antinausea.

Questo è quello che si fa per trattare il mio tumore al cervello.

Nonostante sappia che è quello che la scienza dice che devo fare, e che attualmente ha il più elevato grado di successo per i tumori come il mio, non riesco a considerarlo un amico. Per tanti motivi.

Il primo è il farmaco in sé. Pur essendo, anzi, un farmaco che tutto sommato non porta tanti effetti avversi (soprattutto se lo confrontiamo con gli altri chemioterapici), è pur sempre una sostanza molto tossica, addirittura cancerogena, che già mi ha fatto sballare i valori degli enzimi epatici a livelli come se avessi una cirrosi. Questo avvelenamento volontario/obbligatorio proprio non lo riesco a mandare giù.

A questo si aggiunge un senso di mancanza di innovazione. Con una storia clinica che inizia negli anni 80 con i primi trial di primo livello, e la prima adozione come trattamento di seconda linea per il glioblastoma multiforme nel 1999, la molecola è rimasta fondamentalmente invariata. È un blockbuster, come si dice nell’industria farmaceutica.

Guardandosi in giro tra le pubblicazioni scientifiche, si nota ben presto che la quasi totalità delle sperimentazioni riguarda solo la variazione dei dosaggi e la combinazioni della molecola con altre o con altri chemioterapici o trattamenti radianti.

Si ha, insomma, la sensazione (netta, seppur parziale, come tutto) che ci siano solo innovazioni incrementali in quest’area, e nulla in pentola — e quasi pronto da mangiare — che cambi le carte in tavola.

D’altra parte, se confrontato con altre patologie, stiamo parlando di tipi di cancro che sono abbastanza rari e che, quindi, non hanno molto mercato, sì da giustificare impegni estesi. Non è, insomma, una pandemia, su cui investire centinaia di miliardi, aspettandosi un ritorno sugli investimenti di scala planetaria. Una molecola tutto sommato efficace, ben tollerata, sicura, adottata, preziosa (con i suoi 800–1000 euro a dose) e che garantisce medie di sopravvivenza che, a seconda della patologia, variano dai 6 mesi agli 11–13 anni, sembra andare più che bene. O, almeno, sembra andare bene all’industria. D’altra parte la ricerca la fai se c’è qualcuno che la finanzia. (E ben speriamo nell’Unione Europea, che ha un intero capitolo dedicato al cancro per i prossimi cicli di finanziamenti)

Altro elemento è la caratteristica di “protocollo” di questo trattamento. Pensando logicamente, con il pensiero razionale, capisco che questo non è un male, ma una garanzia: la comunità scientifica internazionale è concorde che per la mia malattia questo è il trattamento migliore che, per adesso, è disponibile. C’è però un altro aspetto che è tutt’altro che logico, ma che è ugualmente potente — se non di più — nei suoi impatti emozionali. Infatti il carattere di essere un “protocollo” genera una sensazione di ineluttabilità, di “ultima spiaggia”. Di “se non funziona questo, che altro posso fare?” Il fatto che siano tutti così concordi nel dichiarare con certezza che questa è LA terapia migliore, senza dubbio o alternativa, non fa che confermare questo effetto.

Il che si sposa perfettamente con l’ultimo elemento che suscita il mio disagio: la mancanza di agency. Io che posso fare, oltre a prendermi queste pasticche, come da protocollo? Nulla! C’è solo una dimensione: la prescrizione e il consumo. Non è previsto altro. Non posso essere “partner” in nulla. Chessò, potrei generare dei dati, parlare con altri, fare delle cose insieme ad altre persone.

Io lo faccio per conto mio, ma le istituzioni della salute e della ricerca rimangono impermeabili a questa dimensione.

Comunque sia, 5 giorni al mese, arriva il mio ciclo, ed ha un che di devastante.

Quei 5 giorni al mese soffro di una rabbia profonda. Non mi toccate. Potrei sbranarvi. Anche cose piccolissime mi fanno imbestialire. Da 1–2 giorni prima. Serbo rancore. Rosico per un nonnulla.

Gli effetti sono anche fisici.

C’è un cassetto qui, dove stiamo vivendo a Torino, in residenza all’Opera Barolo. È grande e ci ho ficcato dentro tutte le dozzine di pastiglie che mi devo prendere ogni giorno. Anche quelle del ciclo di Temozolomide.

Queste pastiglie non hanno alcun odore evidente. Eppure quei giorni, nonappena apro il cassettone, io ne sento distintamente l’odore: ne vengo invaso. Acquisiscono un odore. Orribile. È il mio corpo che, tramite questa allucinazione olfattiva o sensibilità temporaneamente estesa, mi segnala l’avvelenamento in arrivo. Lo sento/immagino anche adesso mentre scrivo questo odore/sapore, in fondo al palato, fangoso e dolciastro, orrendo.

Altro effetto: nei giorni del mio ciclo cerchiamo di mangiare verdure molto “liquide”, come i minestroni, la bieta, e altre cose del genere, per favorire l’espulsione e la depurazione dalla tossicità dei farmaci chemioterapici.

Bene: Pavlov sarebbe fiero di me. Sì, perché da qualche giorno non posso soffrire l’odore e il sapore di questi minestroni e biete. Tutto il resto sì, lo annuso e mangio con gusto. Il fatto che questo cambio di alimentazione avvenga sistematicamente durante il ciclo, durante questo avvelenamento da protocollo, mi sta facendo odiare questi meravigliosi minestroni e zuppe, fino ad avere le allucinazioni olfattive e nel gusto.

Il mio corpo e la mia psiche si ribellano in molti modi, in quei giorni.

E non ci sono rituali, segni e appigli con cui aiutarsi: solo la prescrizione e il consumo dei farmaci, come da protocollo.

Questo periodo pandemico, in cui le distanze sono ancora maggiori, rende ancora più evidente questo fenomeno: i 10 minuti di visita ogni mese sono del tutto insufficienti a riempire la mancanza di senso e di segni che si crea durante la terapia.

Servirebbe una ritualità, da fare anche tra pazienti, amici, familiari, e creando nuovi tipi di parentele e di prossimità e sensibilità. Dal vivo o anche in remoto. Col corpo e le tecnologie. Non con la logica e con le parole: una cosa del sentire invece che dell’usare. Anche se fosse completamente “inutile” ai fini scientifici (ma poi lo sarebbe davvero? Come insegna la scienza: è tutto da verificare).

Ci scenderò (o salirò?) a patti?

Fatto sta che è molto difficile, e il pensiero logico può poco con(tro) questo assalto emozionale.

Forse mi inventerò qualcosa. Sarebbe bello farlo con l’ospedale, o con qualche istituzione della sanità.

Intanto, oggi ho avuto un primo segno che qualcosa sta avvenendo.

Tempo fa, il professor Alessandro Bozzao mi ha invitato a raccontare le mie storie della Cura a un’iniziativa molto bella che si chiama “Ottobrate Neuroradiologiche Romane”, che è un incontro di altissimo livello indirizzato a Neuroradiologi, Radiologi, Neurologi, Neurochirurghi ed altri specialisti che quotidianamente si confrontano con pazienti con le patologie del Sistema Nervoso.

Il prof. Bozzao mi segue fin dal 2012, e si è messo sempre alla pari con me. Mi dice le cose con una calma, lucidità e chiarezza estrema. Si vede che si mette in dubbio, soprattutto nel linguaggio: non ha nessuna intenzione di farmi la paternale, gli interessa solo condividere la conoscenza circa ciò che mi serve per comprendere al meglio la mia condizione, di darmi il suo parere sincero, e di starmi umanamente vicino in quelle che poi saranno le mie scelte. Si è sempre esposto molto con me, e siamo diventati amici.

Il prof. Bozzao, quindi, ha immaginato che fosse una buona idea far sentire ciò che dal 2012 in poi stiamo chiamando “La Cura”: il riposizionamento della malattia, della sofferenza, del sentire, per farlo diventare conoscenza e condivisione, nella società.

Se guardate tra i video del corso/incontro, ci trovate anche il mio. Tra tanti casi di studio tecnici, su come si diagnosticano e si trattano le malattie, ci trovate anche un mio video in cui parlo della Cura, passando da risonanze magnetiche, open data, arte, società, politiche della salute, privacy, piattaforme online, emozioni, autorappresentazioni e tante altre cose.

Una cosa che, a vederla a prima vista, potrebbe sembrare aliena, gettata lì.

Ma non è così.

Stamattina mi è arrivato l’invito per partecipare all’evento online di chiusura. Era un invito per “esperto”, non tra il pubblico.

Un “esperto”, tra medici conosciuti in tutto il mondo. E ho pensato che fosse una cosa importante.

Mi sono collegato, ho salutato, e mi sono messo solo in ascolto.

C’erano poco meno di 120 persone all’evento, tutti professionisti.

Nonostante questo fosse il 4° giorno del mio sesto ciclo di Temozolomide — quello che è l’apice della mia condizione di rabbia –, ascoltando mi sono sentito meglio.

Non so esattamente perché.

Mi sembra che sia perché ho percepito una speranza. Che è anche una conferma, tra l’altro. BigPharma, inteso come fenomeno negativo volto al esclusivamente al profitto, sicuramente esiste, ma queste che vedevo e ascoltavo nell’incontro erano qualcosa di diverso: persone e professionisti con una vera passione ed estremamente dedicati alla scienza e a far stare meglio le persone.

Vederle queste persone e ascoltarle lì — nonostante le immagini, le parole e anche il distacco con cui i dottori parlano dei loro pazienti fossero molto duri da sentire e vedere, soprattutto se sono cose che hai vissuto in prima persona — mi ha calmato molto. Era l’evidenza che come quelle 120 persone c’è una intera comunità internazionale che, direttamente o indirettamente, ci cura.

Peccato che si veda poco. E i danni si vedono: l’antiscienza, la disinformazione e i populismi sono qui, davanti a noi, e hanno un costo altissimo su tutti i livelli. Questi fenomeni agiscono proprio sui livelli non logici, scientifici, razionali, ma su quelli emotivi, simbolici, estetici, della comunicazione: proprio quelli in cui la scienza ha più difficoltà ad esprimersi.

Allora, con questo articolo, ho deciso usarlo questo ruolo da “esperto” che mi hanno attribuito con questo invito.

Perché c’è una ricucitura da fare, tra ospedale e società. Io e mia moglie Oriana, nel 2012, abbiamo provato a metterne in atto una versione, che ha avuto i suoi lati luminosi e i suoi lati oscuri. Sia in questi incontri che nella pratica clinica di tutti i giorni, dovrebbero essere introdotte queste alterità, queste presenze reciproche. Bateson parlava della “differenza che fa la differenza”. Sarebbe una trasformazione epistemologica molto importante, in cui la società e i suoi componenti si potrebbero trasformare in partner della scienza, attraverso l’arte, il design e la comunicazione.

Ma non si può fare tutto insieme.

Ma qualcosa sì, però.

Per esempio nella prossima “Ottobrata”, o in qualcuno dei reparti ospedalieri che mi trovo a frequentare, potremmo inventarci qualcosa di nuovo: un format che includa altri “esperti” come me, o un modo di utilizzare arte e tecnologie per fondare una nuova ritualità della malattia, in cui medico, paziente e tutti i loro ecosistemi relazionali siano partner nella cura (e in cui, in certe situazioni, persino l’idea che possa essere addirittura il paziente a curare il medico non sia poi così bislacca).

Per adesso io mi godo questa inclusione da “esperto”, che già mi ha fatto stare meglio e sentire più partecipe. La rabbia del mio ciclo si è già parzialmente trasformata in attivazione.

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