I Dati sono lavoro?
Anche no. I dati sono esistenza.
In questo agosto umido e sciroccoso romano, ho qualche dubbio.
I dati sono lavoro? Non so.
Mi sembra più che i dati siano esistenza, espressione.
Siamo cambiati. In questo cambiamento, i dati e la computazione (gli algoritmi, le IA) sono parte di ciò che siamo, dell’ambiente, del corpo, degli edifici, della città, delle relazioni, dello spazio e del tempo.
Questa differenza (tra i dati come lavoro e i dati come esistenza) si vede benissimo attraverso le differenze tra il lavoro di Jennifer Morone (un bellissimo lavoro in cui lei si incorpora, diventa una azienda, e si mette in vendita tramite i dati del corpo, dei social, della salute, del credito), e operazioni come quelle che facciamo noi, con AOS e con HER. Per esempio quello che abbiamo fatto con La Cura e GhostWriter.
Nella Cura, i dati del mio cancro sono diventati un commons.
Commons non vuol dire che “sono di tutti”, e tanto meno che siano in vendita.
La definizione di commons include almeno 3 elementi: la risorsa, l’ecosistema relazionale ad alta qualità e il fatto che questo ecosistema si riunisca per descrivere delle regole, delle pratiche. Il commons non è solo la risorsa: servono tutti e 3 gli elementi.
Questa è una differenza sostanziale.
Nella Cura, i dati sono un commons: un sistema di relazioni performate. È il modo in cui si trasforma la malattia: non vengono venduti per trovare chissà quale rimedio, o fare chissà quale app, o diventare ricco etc. Divengono il luogo, il tempo, il contesto in cui avviene la relazione, in cui ci si unisce. È Basaglia: la cura può esistere solo nella società, non nella separazione del laboratorio, o dell’ospedale.
In modo differente questo è quello che avviene in GhostWriter. Un nuovo genere letterario: l’autobiografia algoritmica. Lo studio dei limiti incerti del sé attraverso i dati e la computazione obbliga a farsi nuove domande che riguardano il nostro posizionamento esistenziale.
Tutto questo ci potrebbe portare a una serie di riflessioni differenti.
I dati sono lavoro? Forse no, i dati sono parte della nostra espressione, esistenza, corpo, relazione. E come al solito, mettere in vendita il proprio corpo, le proprie relazioni ed espressioni, esistenza ha delle conseguenze.
L’attuale industria dei dati è estrattiva.
Sappiamo benissimo cosa fanno le industrie estrattive, quali implicazioni hanno sull’economia, la società, l’ecositema.
Possiamo quindi comprendere come le soluzioni non possono ricadere nel dare spago a questa interpretazione del mondo.
Addirittura, anche il GDPR è problematico in questo senso: non mette in dubbio in alcun modo il fatto che l’industria dei dati sia di tipo estrattivo; ti dice solo come devi fare il pozzo.
E, nel farlo, suggerisce anche che fare questo pozzo è molto complicato e costoso e complesso. Tanto che la situazione diventa paradossale.
Paradossalmente, infatti, è relativamente semplice per un Facebook o un IBM o un altro “grande” fare un “coso” che sia GDPR compliant. Le necessità burocratiche, amministrative, legali e operative della compliance sono nelle corde di questi grandi soggetti: è quello che fanno e che sanno fare.
Invece, diventa molto difficile per un singolo ricercatore indipendente, per un artista, un desiger, un attivista o altra cosa “piccola” usare i dati per fare un’opera d’arte, per comprendere sé stessi e la propria comunità, o le tante altre cose che si possono fare con i dati.
Il risultato è che i dati sono ancor più separati dalle persone, e dalla loro esistenza.
Forse non serve questo.
Serve usare altre metafore, altri sintomi, altre estetiche per creare contratti sociali differenti.
Servono nuovi commons, fondati su nuove forme di identità.
Per esempio: ora il progetto Decode sta sperimentando nuove forme di appropriazione e autogestione/gestione collettiva dei dati, usando la blockchain.
Questo è molto simile a una cosa che facemmo noi qualche anno fa: gli Ubiquitous Commons.
Con una enorme differenza: l’identità.
In Decode, l’identità è individuale, deterministica.
In Ubiquitous Commons l’identità può essere individuale, collettiva, anonima, temporanea, transitiva, e combinazioni di queste (es: collettiva + temporanea, per avere l’identità dei partecipanti a un evento). Combinandole posso creare identità per condomini, quartieri, professioni, cittadini, scuole, edifici, alberi, foreste etc.
Questa differenza fa tutta la differenza.
Perché l’identità digitale di cui si parla (il “passaporto elettronico”) non ha nulla della digitalità, delle caratteristiche del mondo in cui esistono le culture digitali, che cambiano il nostro posizionamento esistenziale. È come quando volevano sia gli mp3 sia il copyright: non si può. La digitalità implica la replicazione, la moltiplicazione, la ricombinanza, il remix.
Per questo motivo, da un po’ di tempo a questa parte, invochiamo la fine dell’human centered design.
Abbiamo tutti preso una cantonata: l’human centered design è una cazzata.
Dobbiamo spingere a tutti i costi verso un design ecosistemico, in cui l’essere umano sia parte di una rete in cui ci sono anche gli oggetti, le piante, gli edifici, le organizzazioni, l’oceano, le intelligenze artificiali, etc. un design che sia capace di affrontare il riposizionamento esistenziale.
Quando abbiamo abbandonato l’idea che la terra fosse al centro del creato, abbiamo scoperto l’universo.