Il futuro che vorremmo

ragionamento su una possibile ecologia di futuri

Salvatore Iaconesi
7 min readOct 5, 2018

Il futuro. Che strano concetto.
Per pensare al futuro servirebbe la fede.

La fede in cosa?

Walter Benjamin diceva che il capitalismo è una religione, forse la più feroce tra le religioni che conosciamo, perché non conosce redenzione, né giorni di festa.

Se ci pensiamo, non faticheremo a vedere come siamo circondati da religioni.

È religione il modello di successo ampiamente diffuso.

È religione la scienza, per come rischia di posizionarsi nel mondo, tanto da rinunciare al metodo scientifico, che è il primo a sostenere che il compito della scienza è smentire sé stessa. La scienza della conferma. Tanto da arrivare a dire che “la scienza non è democratica” e, invece, la scienza è forse la cosa più democratica che ci sia. La scienza che rischia di diventare una gara, una hit-parade, una misurazione di chi è più bravo e, quindi, di chi ha accesso a fondi, opportunità, influenza politica e possibilità a partecipare a feste, eventi e circoletti. Quella scienza in cui ci sono i divi, sempre gli stessi, secondo un canone hollywodiano.

È religione il discorso sui dati, sulla “misurazone”, per come lo conducono istituzioni, amministrazioni e operatori del consumo, dello spettacolo e dell’informazione, che vorrebbero far passare per buone pratiche e opportunità per il futuro idee strampalate e potenzialmente pericolose sulla possibilità di misurare i comportamenti delle persone, gli impatti sociali, psicologici ed economici. Quelle organizzazioni e istituzioni che, nel farlo, troppo spesso dimenticano cosa sia la società, le necessità psicologiche e relazionali delle persone, le loro aspettative emozionali ed economiche. Dati e misurazione che iniziano a causare danni seri a livello sociale e personale, su di noi, circondati da infinite opportunità di misurarci e, quindi, di avvilirci, o di raggiungere fragili successi e soddisfazioni, o di subire metriche e classificazioni, o di essere esposti a previsioni e valutazioni di merito.
È religione il dato che permette la divinazione, la colpa, la previsione, la classificazione.

È religione l’ecologia della conoscenza che si sta materializzando tutto attorno a noi, con le sue chiese, estremiste, polarizzate, contrapposte, isolate, separate le une dalle altre e non capaci di parlarsi se non per ingiurie, improperi e attacchi.

E potremmo continuare.

Per prendere in considerazione il futuro, serve la fede.

Per avere fede, bisogna credere.

Credere ha la stessa etimologia di credito.

Questo è il centro della questione.

Il credito presuppone il poter misurare. Misurare la fiducia.

In questo momento, però, la fiducia e la sua misurazione sono in crisi.

Si cede addirittura alla pericolosissima meritocrazia, o al moralismo, pur di non avere a che fare con la crisi della fiducia, e della possibilità di assumersi la responsabilità del costruirla, come società.

Le istituzioni, che sarebbero teoricamente depositarie della maggior quantità e qualità di fiducia, vivono al contrario nella crisi della fiducia, creando spazio per i moti reazionari populisti, che proprio nelle “religioni” (dei vari tipi possibili, come già descritto) trovano la capacità di svilupparsi.

E, paradossalmente, è proprio la possibilità di misurare che crea le condizioni della crisi.

Quando “fiducia”, “benessere”, “conoscenza” diventano mere misurazioni, semplici e lineari quantificazioni, secondo parametri misteriosi, selezionati da esperti (umani o automatici) nello spazio chiuso di laboratori o data center, qualcosa si rompe.

Siamo quantificati in ogni modo. Siamo circondati di strumenti per misurarci psicologicamente, emozionalmente, fisicamente, fisiologicamente, comunicazionalmente, politicamente. Ci misuriamo e ci misurano all’ospedale, a scuola, al lavoro, nella società delle relazioni, nell’intimità.

Siamo nel bel mezzo di un incubo lombrosiano della classificazione. Misurare vuol dire necessariamente classificare e mettere in fila, dalla A alla Z.

Si misura in modi arbitrari, e su cui non c’è stata alcuna riflessione sociale, nessuna invenzione sociale, nessuna politica nello spazio e nelle sfere pubbliche.

Nei modi complessi del mercato e della gestione del potere, si decide che si misura così e cosà, questo e quello.

Anche la rivoluzione si misura, si auto-misura: è da Occupy, da Podemos, da Anonymous che misuriamo tutto. Il 99%, l’1%, lo 0%, il 100%, le statistiche, di qua/di là, le bolle, i social, la democrazia diretta: tutti incubi della misurazione, della classificazione. Uno vale uno, zero vale zero, tutti valgono tutti.

Sembra impossibile concepire di fare altro: misurare, misurare, misurare.

Il dominio del pensiero ha abbandonato la scena, lasciando il posto a quello del calcolo.

Anche le componenti più avanzate dei movimenti sono intrappolati dalla misurazione.

Monete alternative, token, blockchains, smart contracts, sensori, piattaforme.

Tutto si trasforma in finanza.

Quando la fiducia si automatizza, finisce la società, che è in larga parte lo scegliere a chi dar fiducia, sulla base dei rapporti relazionali ad alta qualità.

Quando la vita si tokenizza, la vita diventa finanza, emerge il credito, il debito, lo scambio, i derivati, i futures. Il futuro.

Come fare?

Servono nuovi tipi di dati, nuove forme di computazione. Non solo nei nostri computer, smartphone, dispositivi e piattaforme, ma anche e soprattutto nel nostro approccio filosofico al mondo, nel nostro modo di pensare, nelle nostre mappe mentali.

Nuovi tipi di dati il cui scopo non sia l’essere contati, ma di altro tipo, afferente al dominio del pensiero, della psicologia, della relazione. Nuovi tipi di dato in cui sia importante la forma, la sensazione e la capacità di empatia (la capacità di farsi altro), non la sola quantità, contabilità.

Occorrono nuove forme di computazione il cui scopo non si esaurisca solo nell’efficienza, nell’ottimizzazione, nella capacità di classificare, ma nella capacità di interconnettere, di generare senso e solidarietà, di creare i presupposti per la coesistenza di diverse opportunità di scansione temporale, spaziale e culturale, che siano in grado di affrontare le questioni fondamentali del pianeta: l’ambiente, l’energia, il clima, la povertà, la salute, l’accesso. Queste sono impossibili da affrontare nei tempi e nei contesti che abitualmente si prevedono per le amministrazioni, le aziende e gli investitori: non sono sufficienti obiettivi verticali a 3 mesi, ma diventa necessario includere obiettivi che siano ecosistemici, globali, a 10, 100, 1000 anni. Come si fa, oggi, ad avere un obiettivo a 1000 anni? È una questione che sfiora l’impossibile, non ha quasi senso, se inqadrato con i modi di fare dell’azienda e delle amministrazioni. Eccoli i loro termini: fino alla prossima elezione, fino al prossimo trimestre. Poi chi sopravviverà, vedrà.

Questo è ciò che può succedere quando i corpi, le emozioni, le espressioni diventano dati, e quando entrano in scena forme di computazione che sono più vicine al pensiero che al calcolo. Succede che cambia un paradigma, e che questo paradigma cambia anche noi: noi inventiamo le tecnologie tanto quanto le tecnologie inventano noi.

Quando questo avviene, quando questo paradigma riuscisse a uscire dal laboratorio e entrasse a far parte del nostro immaginario, e qualora ce ne riuscissimo ad appropriare, riusciremmo anche a concepire e a far sorgere nuove forme di istituzione, di organizzazione, radicalmente differenti da quelle attuali. Istituzioni e organizzazioni ubique, nel senso del continuo e inarrestabile compenetrarsi del locale nel globale e del globale nel locale.

Nuove forme di istituzione e di organizzazione in grado di indossare e vivere questi nuovi tipi di dati e queste diverse forme di computazione, e di portarli nello spazio pubblico, formando una conversazione pubblica di tipo differente.

Non stiamo parlando di una società in cui dati e intelligenze artificiale governino la società in modo algoritmico.

Stiamo parlando di un mondo in cui il fatto che la tecnologia stessa tenda al pensiero e non al calcolo possa diventare lo stimolo per la nostra trasformazione, per portare noi stessi, di nuovo, ad abbandonare il calcolo e a riabbracciare il pensiero.

Puntare verso un mondo in cui alla politica non sia più riservato solo lo sterile dominio del calcolo e dell’amministrazione, ma che possa diventare ciò che potrebbe essere: invenzione sociale.

Tutto, intorno a noi, ci suggerisce la possibilità di una trasformazione in questo senso. Iniziamo ad avere tecnologie, sistemi e modelli in grado di sostenere questa complessità, tanto da iniziare a suggerirci i modi in cui potremmo utilizzarli per concepire queste nuove istituzioni, attuando forme di design ecosistemico in cui poter smettere di illudersi che l’essere umano (come singolo, come protagonista dello user journey, il viaggio dell’utente) sia al centro, e pensare al mondo delle relazioni che ci si apre davanti, con gli altri esseri umani — dall’iperlocalità alla globalità — , l’ambiente, le organizzazioni, le nuove identità e soggettività giuridiche, computazionali e ibride che entrano a far parte del nostro ecosistema.

Innanzitutto dobbiamo ripensare noi stessi, e moltiplicarci. Dobbiamo diventare non solo singoli, individui, ma comprendere come poter esprimere il fatto che, allo stesso tempo, siamo collettivi, anonimi, temporanei, transitivi e tante altre combinazioni.

Potremmo, allora, calarci nell’ecosistema relazionale che stiamo immaginando, diventare interconnessi, empatici, con tutte queste soggettività, sentire la relazione sulla nostra pelle, sui nostri nuovi sensi, e immergerci in un modello in cui non si cerca il consenso, ma la possibilità di co-esistenza.

Questo richiede un grande ripensamento, e una grande capacità di reinventarsi, per poter affrontare insieme le grandi sfide del pianeta.

Occorre unirsi, anche non essendo d’accordo, anche senza consenso, anche pensandola in maniera differente, e immaginare mondo, portarci in una condizione di invenzione sociale.

Per poterci ricondurre a questo genere di condizione non basta la tecnica, l’ingegneria, l’economia. Servono altre capacità e metodologie. Servono l’arte, il design, e tutte quelle attività umane che riescano a portarci verso i processi dell’immaginazione, della visione, della possibilità. Servono la musica, la performance, il teatro, le installazioni artistiche, il gioco, il carnevale: tutto ciò che riesca a materializzare nel mondo realtà altre, differenti e che, facendolo, apra le porte della nostra percezione di ciò che è possibile.

L’Arte non è una decorazione, è una strategia.

Questo testo è prodotto in sostegno dell’evento Il futuro è morto! Lunga vita al futuro!, promosso da Macao, a Milano per attivare una riflessione sulla città e sul futuro delle nostre istituzioni e del nostro vivere nella e con la società.

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