La Scienza, dopo la Terza Guerra Mondiale
Sul ruolo della Scienza nella Società
Dopo la Seconda Guerra Mondiale sono iniziate ad avvenire grandi azioni il cui scopo era quello di minimizzare la possibilità che ne accadesse una Terza.
Ad esempio, la nascita dell’Unione Europea poggia le sue radici storiche proprio nella fine della Seconda Guerra Mondiale e, sin dal Manifesto di Ventotene e dalle azioni di Altiero Spinelli, l’Italia ha avuto un ruolo di fondamentale importanza in questa direzione.
Dello stesso tipo sono i tanti movimenti per la pace sorti dopo la guerra, le cui vicissitudini possono essere tracciate sino a riunirsi con quelle dei grandi movimenti del ’68 e successivi.
Anche la Scienza, dopo la Guerra, iniziò a muoversi per reagire al ruolo cruciale che aveva ricoperto durante il suo svolgimento.
(Nota: seguirò, in questo inizio di articolo, l’impostazione suggerita in questo interessantissimo articolo di Eduardo Grillo, su Ocula)
La Cibernetica e la Guerra
Nell’appendice di “The Human Use of Human Beings”, nella parte che contiene la lettera “A Scientist Rebels”, Norbert Wiener dice:
“to provide scientific information is not a necessarily innocent act, and may entail the gravest consequences.”
Molti scienziati erano molto preoccupati per il ruolo che la scienza aveva avuto nella guerra.
Inoltre, la segretezza e la razionalità ideologizzata erano le caratteristiche fondanti dell’orrore nazista, e la comunità scientifica aveva iniziato cercare modi in cui processi sociali di questo genere non potessero più sorgere, o almeno modi in cui la società avrebbe potuto riassorbirli e disinnescarli.
In particolare la cibernetica si riproneva di farlo utilizzando la comunicazione. Questa, infatti, interpretava l’elettronica, l’antropologia e la neurofisiologia secondo i loro caratteri comunicativi con l’ambizione di poter descrivere modelli generali per regolare la comunicazione (e quindi l’interazione) tra esseri umani e macchine.
Era la scienza del controllo e della comunicazione, in cui ogni riflessione è associata all’idea di regolazione, comando e padronanza: intervenendo sulla comunicazione si pensava di poter orientare i comportamenti. Wiener, infatti, pensava che la matematica fosse una “scienza delle relazioni”, tanto da arrivare ad immaginare che il mondo naturale e sociale fosse costituito solo dalle relazioni, dagli scambi e dalla circolazione delle informazioni.
Da questo punto di vista e con questo tipo di approccio, l’essere umano diventava un soggetto fatto di comunicazione, immerso (e costituito) dai suoi scambi di materia e informazione, e completamente determinato da essi.
Lo scopo ultimo di questa impostazione era di permettere l’autoregolazione, mediante il controllo (possibilmente automatico) della comunicazione.
Questo desiderio di controllo era, evidentemente, direzionato verso il desiderio di attivare modelli e meccanismi per evitare che si potesse verificare un ennesimo, ancor più distruttivo, conflitto.
Nuove Epistemologie
Questo sforzo, però, includeva numerose controindicazioni.
Controindicazioni che arrivano direttamente fino ad oggi, al nostro presente, in cui la dimensione automatizzata della comunicazione ci porta direttamente ai fenomeni che stanno minando la solidità di democrazie e organizzazioni sociali: populismi, fake news, e simili.
Alcuni “cibernetici” (o, meglio, che nascono dalla cibernetica o che dalla discussione attorno alla cibernetica hanno tratto ispirazione e idee), come Gregory Bateson e Bruno Latour, ci avevano già indicato alcune problematiche e idee interessanti in questo senso.
In particolare Latour nella sua “politica della spiegazione” ci racconta di una scienza il cui obiettivo non sia quello di essere in grado di fornire spiegazioni, ma quello di portare la descrizione alle sue estreme conseguenze.
Cosa vuol dire?
Come è fatta una scienza in grado di rinunciare alla spiegazione e di portare la descrizione alle sue conseguenze estreme?
Latour si riferisce a nuove possibili filosofie della scienza, capaci di avere a che fare con la complessità della vita descrivendone i network che la rendono possibile e attiva, viva, performativa.
Solo oggi, con i Big Data, e gli innumerevoli modi in cui hanno cambiato e stanno cambiando la scienza, possiamo forse iniziare a comprendere le implicazioni di queste nuove epistemologie.
Queste enormi quantità di dati non servono a dare spiegazioni, a perseguire una sintesi, ma a potere finalmente avere a che fare con la complessità.
I BigData diventano utili quando ci è possibile osservarli e usarli nella loro vitalità e dinamicità, per tentare di descrivere la vita nel suo svolgersi e per tentare di averci a che fare, non riducendola, non sintetizzando in indici e sintesi, ma nel tentativo di poterne trattare la complessità, con tutti i suoi conflitti, paradossi, differenze, variabilità. (Nota: e, anche, tenendo conto di tutte le implicazioni che si generano ogni qual volta si cerchi di realizzare una mappa che coincida con il territorio, che è un’altra delle grandi questioni non poste in questo ingenuo inizio di età digitale.)
C’è, però, una grande differenza tra la scienza che indicava Latour e quella che stiamo mettendo, ora, in campo con i BigData.
E questa differenza sta nel fatto che Latour descriveva una scienza posizionata nel bel mezzo della società, non nel chiuso dei laboratori e nelle stanze delle decisioni, in cui alcuni pochi uomini di fronte a una dashboard guardano i dati per prendere le decisioni.
Latour parlava esplicitamente, per esempio del posizionamento nella società della scienza, tanto da arrivare a dire, nella Actor-Network-Theory, che i nodi delle reti relazionali che non performano (che non partecipano) non contribuiscono nella spiegazione dei fenomeni.
Nella Società
Per costruire questa nuova scienza, occorre posizionarla in mezzo alla società.
E, quindi, ci potremmo chiedere dove sia questa società, e che forma abbia.
Per farlo, potremmo pensare alla meravigliosa definizione di Cultura che Vilém Flusser dà nelle sue lezioni di design:
“La Cultura è l’insieme delle cose che le persone fanno e usano”
Beh, oggi, tutto l’insieme delle cose che le persone fanno e usano genera dati, soggetti a computazione.
Questa è una considerazione fondamentale, perché indica con certezza che, nella nostra società, nel mondo che conosciamo e in cui viviamo, i dati e la computazione hanno cessato di essere una questione esclusivamente tecnica, e sono diventati un elemento fondamentale della nostra cultura.
Inoltre, vista la loro ubiquità e il modo in cui vengono sistematicamente utilizzati per dare forma ai modi in cui ci è possibile conoscere il mondo e a relazionarci con le persone, dati e computazione sono diventati una parte fondamentale della composizione della nostra condizione esistenziale. Sono parte di noi.
È ingenuo e pericoloso, oggi, parlarne sono in termini di tecnica.
È, invece, necessario parlarne in termini della nostra possibilità di esistere, con un corredo accettabile di diritti, libertà, e tenendo conto delle implicazioni psicologiche, culturali, relazionali, sociali, emozionali.
I Dati non sono più quelli di una volta
Cosa succede quando emozioni, corpi, posizioni nello spazio, relazioni, espressioni ed emozioni diventano dati?
Fino a qualche tempo fa, i dati erano semplicemente qualcosa che si contava: quante mele ci sono sul camion, quante paia di scarpe comprano gli Italiani, come è fatto l’andamento delle iscrizioni all’università.
Ora, questa definizione non vale più. Iniziano ad apparire dati per cui non è poi tanto interessante il fatto che possano essere contati, ma il fatto che se ne possa comprendere la “forma”.
Questa, per esempio, è la cosa che succede con i BigData, specialmente quelli collegati (linked). Se devo analizzare come un certo tema si diffonde su un social network non mi interessa tanto sapere che è stato condiviso 2 milioni di volte, o qualche altro numero. È immensamente più utile vedere il grafo relazionale in cui si è diffuso, osservare le tribù di cui è composto, comprenderne l’evoluzione nel tempo e nello spazio (geografico e delle relazioni online).
Certo, ci sono funzioni matematiche per comprendere queste cose (per esempio per il calcolo delle centralità e delle clusterizzazioni che permettono di identificare le comunità), e quindi, sotto sotto, stiamo parlando sempre di numeri.
Ma quei numeri hanno lo scopo di parlare delle forme e, quindi, assumono il loro senso quando sono visualizzati, raccontati, rappresentati: quando vengono ricondotti alla forma, alla visualizzazione.
Questo è tanto vero che anche l’industria si accorge di questo fatto.
Dai paradigmi del calcolo, infatti, ci si sta spostando ai paradigmi del pensiero.
Questo è il senso della nuova linfa vitale che l’Intelligenza Artificiale sta avendo in tutto il mondo. L’industria si è accorta che se nell’era industriale serviva il calcolo, nell’era della conoscenza serve il pensiero: se una volta era importante produrre/distribuire cose e contarle, ora è importante conoscere la forma di relazioni, espressioni ed interazioni, e gestirle.
Petrolio?
C’è un problema.
Questa industria, che usa la computazione (algoritmi e intelligenza artificiale) sui dati per comprenderli, decidere ed agire, è e rimane una industria estrattiva.
I dati vengono estratti dai nostri comportamenti online e offline, elaborati e usati per decidere e agire, secondo un paradigma industriale/militare.
Questi dati, estratti da noi, non sono attualmente accessibili, usabili e neanche conoscibili e percepibili, come non sono a noi conoscibili le relazioni tra di loro e gli effetti che comportano sul mondo.
Estrai i dati, computa, decidi. Come per la balistica, per puntare un missile per assicurarsi che colplisca il bersaglio, questa modalità di influire sul mondo (bombardare) vale per un ampio spettro di casi, che si tratti di vendere un paio di scarpe o per far eleggere il presidente USA.
Nonostante, come abbiamo visto, (big)dati e intelligenza artificiale potrebbero afferire a modelli differenti (per esempio al modello della descrizione e della relazione, in mezzo alla società, proposto da Latour), industria e istituzioni continuano ad utilizzare il modello industriale/militare (indici, previsioni).
Concretezza
Ci si potrebbe chiedere come attuare questo cambio di paradigma scientifico in concreto, nel progettare e realizzare gli interventi che ci troviamo a fronteggiare quotidianamente.
Per farlo serve un cambiamento del punto di vista (e, come direbbe qualcuno, un cambiamento del punto di vita).
Nonostante le nostre abitudini o convinzioni, uno stesso problema si può vedere da tanti punti differenti.
Se cambio il sistema di riferimento (il che corrisponde a cambiare il punto di vista), lo stesso problema si vedrà in un altro modo, un’altra interpretazione altrettanto valida, e che è potuta diventare visibile solo perché ho cambiato il punto di vista.
Io, per esempio, nell’analizzare un problema in una istituzione, potrei guardarlo da un certo punto di vista e interpretarlo in termini di incompetenza, delle inerzie delle burocrazie, della corruzione che potrebbe essere presente, del mancato desiderio di evoluzione per far sì che certi soggetti possano mantenere posizioni di potere, rilevanza, benefici economici, diritti acquisiti eccetera. Di tutte una serie di possibili spiegazioni che potrebbero essere assolutamente vere e valide.
Se cambiassi punto di vista, però, potrei ottenere altre spiegazioni, altrettanto valide, perché potrei vedere il sistema in un altro modo.
Per esempio, lo stesso problema potrebbe essere interpretato in termini di mancanza di solidarietà, di empatia, di fratellanza, di amicizia.
Il funzionario che ostacola l’evoluzione e il miglioramento non lo fa solo per mantenere quell’inerzia che gli permette di mantenere privilegi e rilevanza. Lo fa anche perché non percepisce/conosce/comprende le implicazioni del suo comportamento. Soprattutto perché non sente queste implicazioni, non prova empatia per le persone che ne vengono affette. Non sente (come in patire, oltre il capire) come il suo comportarsi si propaga nella rete ipercomplessa del nostro ecosistema della società.
Nel nostro mondo globalizzato, in cui iperlocale e globale si compenetrano costantemente e in maniera irrefrenabile, non abbiamo strumenti e modi per percepire, per sentire, per unirci, in questa complessità.
Come società non abbiamo modi per osservare, osservarci, e per vedere e comprendere le implicazioni delle nostre azioni, pulsioni ed espressioni nel mondo complesso. Poterle vedere e averne esperienza è il primo passo per sentire, che è la caratteristica fondante dell’essere umano.
L’industria del sentire
E, quindi, possiamo tornare all’industria.
Come abbiamo già detto, l’industria ha ben capito questo spostamento e il fatto che nel mondo attuale la dimensione del sentire ha assunto importanza eccezionale, tanto da imbarcarsi nella trasformazione delle tecniche che utilizza. Dalla semplice computazione (calcolo) all’intelligenza artificiale (pensiero).
L’industria, però, usa il pensiero (e l’IA) a modo suo: per classificare.
L’uso dell’IA da parte dell’industria (e, quindi, anche della maggior parte della scienza) è volta a classificare (in tutte le declinazioni che questo termine può assumere). E quindi a separare, a discernere.
Classificare corrisponde, letteralmente, a “rendere classe”. L’IA, riconoscendo le cose (e le persone, e i contesti etc) le rende classe, le prende e le separa: queste sono questa roba qui.
Questo rendere classe e, quindi, questo diventare classe, però, non produce coscienza, solidarietà, fratellanza.
Questo classificare, infatti, è invisibile e inconoscibile: addirittura, nella maggioranza di casi, non sappiamo di essere classe.
Il mancato percepire di essere classe, quindi, corrisponde a mancate opportunità di diventare solidali, amici.
Anzi, al contrario, sia il design dei sistemi che ospitano e consentono queste classificazioni (come i social media), sia le stesse affordance delle interfacce e dei linguaggi di questi sistemi, non promuovono la solidarietà e l’amicizia, ma il calcolo e il consumo di relazioni.
È il paradosso: l’industria adotta le “tecnologie del sentire e del pensare” e si interessa, quale capacità primaria di generazione di valore, delle forme dei nostri ecosistemi relazionali, per come si manifestano e vivono nella società; e, invece, spinge noi verso il calcolo e la quantificazione individualistici (i like, il quantified self, i followers, la personalizzazione).
Che Fare?
In un altro articolo, abbiamo descritto come una tecnologia militare (in quel caso il GPS) ci ha, per un momento, trasformati in militari.
In questo articolo, vorremmo testare una ipotesi.
Attualmente stiamo utilizzando dati e intelligenza artificiale in modo militare: per identificare e bombardare. (che si tratti di vendere magliette, pilotare le elezioni o effettivamente bombardare cambia poco: il metodo è quello).
Vorremmo iniziare a testare un cambiamento di paradigma, secondo cui scienza e tecnologia escano fuori dal chiuso dei laboratori ed entrino nello spazio pubblico.
Vorremmo sperimentare i modi in cui da tecnologie e metodi che usiamo per dividere e bombardare diventino invece tecnologie e metodi che utilizziamo comprendere, connettere e prendersi cura.
Da tecnologie e metodi che usano i pochi che hanno accesso alla dashboard, a tecnologie che utilizzano in tanti, per connettere i puntini tra le persone e per costruire solidarietà e senso di amicizia.
Come facciamo?
A nostro avviso possiamo iniziare dall’istruzione e dai concetti di presenza e amicizia.
Dall’istruzione, andando oltre il discorso delle competenze per arrivare a quello di come, oggi, si riconfigura l’essere e il coabitare.
Come abbiamo visto, la tecnica e la dimensione del servizio, nel contesto che stiamo descrivendo sono largamente insufficienti, e occorre spostarsi nel dominio del sentire. Quali sono, in questo spostamento, le nuove professioni le nuove occupazioni che possiamo inventarci?
Ha senso inventare la professione del curatore ecosistemico, per quartieri, condomini, scuole?
Ha senso lo psicologo computazionale? O l’antropologo peer-to-peer? Quali altri?
Dal punt di vista dei territori — fisici o di bit che siano — occorre “uscire” di casa (o dalla filter bubble) ed esplorare la dimensione della presenza e dell’amicizia.
Come suggeriva Jane Jacobs, parlando delle città, la sicurezza non si ottiene con la polizia, ma con le persone per strada, che camminano.
Per uscire in strada e camminare, però, occorre evitare di cascare nel tranello della rabbia, dell’impazienza e della pancia, cui oggi siamo esposti in maniera forte.
Ricreare i presupposti per l’amicizia e la solidarietà richiede di scegliere la coesistenza come filosofia di vita, il che richiede dosi di pazienza e di capacità di accettazione del mondo.
Queste non sono componenti banali e, oggi, viviamo con l’aggravante portato dall’azione di troppe forze politiche ed economiche che, invece, ci vogliono al contrario: rabbiosi, impazienti e incapaci di accettare. Molte di queste stese forze politiche ed economiche sono quelle che hanno a disposizione tecnologie e ingenti risorse finanziarie.
Per disinnescarle, occorre prima di tutto disinnescare noi stessi.
Uno dei modi più efficaci per farlo è quello di utilizzare l’arte e il design, oltre la dimensione del servizio, del consumo e della decorazione: come strategia per attivare le dimensioni della sfera pubblica, della performance partecipativa e del sentire.
Unitevi a noi per cercare di avviare sperimentazioni di questo genere.
Con il nostro centro di ricerca cerchiamo di dedicare quante più energie e risorse posibili a questo scopo.