Sogni d’Innovazione
Quando il lavoro entra nei tuoi sogni: la psicosostenibilità del lavoro che facciamo
Ieri sera abbiamo avuto una discussione abbastanza seria sull’innovazione sociale con mia moglie e socia Oriana. È anche finita in modo un po’ duro e ansioso. Per cui quando sono andato a dormire non ero propriamente tranquillo.
Ecco il sogno che ho fatto.
Era un periodo indeterminato, un momento di iniziative. Come quando alla fine di settembre e per tutto ottobre ci sono gli eventi.
Si sapeva che c’erano cose da fare dappertutto, in maniera diffusa: qui un talk, lì un concerto, qua un tavolo di lavoro, là una performance, lì un workshop. E si andava di posto in posto, di cosa importante in cosa interessante. E ci si incontrava e ri-incontrava tutti.
C’era una peculiarità, però.
A un certo punto era per me diventato chiaro che gli organizzatori di tutti questi eventi erano profondamente… come dire… interessati ai loro partecipanti.
C’era un ammiccare continuo, un far d’occhiolini, un sussurrare cose all’orecchio, un ridere nascosto, e poi dei gesti, dei richiami. Delle scomparse e poi ricomparse, un po’ più scarmigliati.
Io stesso, separato un attimo da Oriana, sono stato coinvolto in questa dinamica.
Si trattava di una condizione particolare, perché pareva che questi organizzatori fossero molto esperti nel comprendere cosa servisse a ognuno di noi: sapevano esattamente di cosa noi fossimo in cerca.
In breve: l’organizzatrice dell’evento a cui eravamo andati mi approccia e mi inzia a raccontare di come potremmo fare progetti insieme, sfiorandomi la spalla con le dita, e quasi sussurando al mio orecchio frasi impercettibili, di cui si comprendevano solo alcune parole, soffiate più forte: opportunità, finanziamenti, spazi, trasformazione, in mezzo alle altre parole, che erano come formule magiche e incomprensibili, fatte per ammaliare e sedurre.
Del fatto che fosse un approccio sessuale, fatto anche con una certa insistenza — dell’insistenza dell’eccitazione, che è possibile che non si riesca quasi a controllare, tanto che si rischia di far violenza agli altri — non c’era alcun dubbio. Anche perchè, voltandomi, ho subito visto che non ero il solo ad essere insidiato.
Anche Oriana era stata preda di questo assalto. Solo in modo molto più fisico: il compagno dell’organizzatrice, in una sorta di piano combinato, stava assalendo sessualmente Oriana. Che evidentemente non voleva. Ma, come succede spesso nei sogni, né io né lei riuscivamo a muoverci e a fare qualcosa, eravamo come paralizzati, bloccati.
Fatto sta che a un certo punto, discontinuo, tipico di queste dimensioni del sogno, ci troviamo liberi, che stiamo scappando.
La nostra IAQOS mobile si materializza lì, come per magia, con la portiera aperta e le chiavi inserite nel quadro, pronte per fornire l’opportunità della fuga.
Accendiamo il motore e la radio, chiudiamo le portiere e fuggiamo.
Dagli altoparlanti esce fortissima, quasi urlata, una musica italiana degli anni 50 e 60, non saprei dire cosa, oltre il fatto che fosse molto cinematografica.
Il paesaggio scorre dal finestrino mentre guido. È peculiare.
Sembra Venezia, ma siamo al Pigneto, a Roma.
Architettonicamente, è Venezia. Solo che nei canali non ci sono le gondole, sono vuoti. E i ponti si attraversano in macchina, in bici e a piedi: è il Pigneto, con tutti i locali, la mondezza, i ristorantini, le baracche trasformate in villini o borghetti o condominietti.
La dimensione della fuga è presto dimenticata. Ora stiamo andando da un’altra parte.
È una casona gigantesca, che mi ricorda ovviamente nella forma un posto in cui siamo stati di recente: sulle colline, con un palazzo al centro e i boschi intorno. È un luogo bellissimo, ricco ed appartato. Ma, a differenza del posto visitato di recente, ha un che di religioso, o meglio ecclesiastico. Sembra la dimora di un’alta personalità religiosa.
Parcheggio la IAQOS mobile nello spiazzo. Oriana non c’è più. Apro la portiera — che non fa nessun rumore — e scendo.
Nulla. Completamente silenzioso. I miei passi per terra. Il portone che mi viene aperto da un signore molto grande ed elegante. La casa all’interno fatta di una sequenza di saloni. Non c’è un singolo suono.
Si apre una porta laterale sul corridoio principale. Delle scale che scendono. In qualche modo so dove devo andare. Scendo. Siamo nel terzo livello sotto il piano terra della casa, che però è sottoterra solo da un lato, visto che è poggiata sul fianco della collina.
Arrivo in una stanza — con delle finestre piccole, ma luminose, perché entra la luce dal lato aperto della collina –.
È una stanza molto particolare. Ci sono delle sedute ampie e spartane, tutte orientate verso il retro della stanza: non delle panche, ma ne hanno l’estetica e la durezza. Vi sono sedute alcune persone. Il silenzio è completo. Si direbbe che stanno aspettando l’inizio di una qualche funzione religiosa, di una preghiera.
Nella magia del sogno, so cosa devo fare.
Su un lato della stanza c’è un ampio tavolo. Sopra ci sono delle grandi scatole, e tanti articoli commestibili: tramezzini, panini, patatine, bevande, snack, finger food, tutto quel che potrebbe essere in un bel buffet. E poi spillette, volantini, post-it, pennarelli, quelle cose lì.
Prendo una scatola dal tavolo, e la riempio. E poi prendo posto anch’io.
Nel frattempo arrivano altre persone, tra cui anche la coppia di organizzatori che ci avevano insidiato prima. Tutti in silenzio. Riempiono la scatola, ognuno a modo proprio, e si siedono.
Man mano la situazione diventa chiara.
Stiamo tutti preparando la prossima mandata di eventi.
E la scatola è il budget che ci viene assegnato nei bandi, per comprare pizzette, post-it e pubblicazioni secondo il progetto che abbiamo presentato. E ci stiamo accingendo tutti a fare l’audience development, a tentare di sedurre amici e parenti per farli venire al nostro evento, così che poi possiamo scrivere qualcosa nel report di monitoraggio.
L’orrore sale.
Ed è superato solo da un altro elemento: aspettando le altre persone, annoiandomi, le pizzette e i tramezzini me li sono già mangiati tutti io!
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Poi mi sono svegliato.
Ovviamente, è un sogno. Come tale opera in altre dimensioni.
“È colpa dei peperoni!”
Però, con le dovute pinze, ci può dire delle cose.
Per esempio sulla sostenibilità psicologica del nostro lavoro, che entra addirittura nei nostri sogni con ansie, paure, incertezze.
E anche sui modelli strategici e operativi cui ci adeguiamo tutti i giorni, per poter partecipare ai processi: e se ci sembrino giusti o anche, semplicemente, se pensiamo che funzionino.
A me, per esempio, del finale, ha colpito molto il fatto che mangiandomi i panini, in un certo senso, sono diventato il pubblico, che è il destinatario di quelle pizzette e di quei post-it. Che vorrà mai dire?
Mannaggia ai peperoni!