Su Protoni, Informazioni e Dati
Alcuni dilemmi sul nostro rapporto coi dati, dal punto di vista di un lettino in un Gantry
[questo articolo è stato ripubblicato qui a questo link, su Singola]
Inizia tutto con un suono come di qualcosa che si svuoti.
Seguito da un’altro che pare venire da lontano e poi, quasi immediatamente, da uno più vicino. Poi un’altro suono, come di qualcosa che si arrotoli, o una cinghia, che fa muovere qualcos’altro. E dopo una pausa. Poi inizia: io lo chiamo il suono del vortice, perché ai miei occhi chiusi sembra l’aprirsi di un portale cosmico, di cui mi immagino l’immagine distorta dell’universo che si intravede al di là.
Così, con questa sequenza di suoni, inizia la mia sessione di protonterapia, tutti i giorni.
Ogni giorno imparo a conoscerla meglio, me ne ricordo qualche dettaglio in più. I suoni, i tempi, le durate, le pause.
Mentre procede la sessione, gli assistenti mettono della musica. Potrei sceglierla, ma preferisco la casualità. Una canzone “media” da radio dura 2–3 minuti. Quindi per terminare i 10–15 minuti della sessione di protonterapia servono 4–5 canzoni.
Queste ed altre sono tutte informazioni che mi permettono di navigare quella che per me è un’esperienza importante, che addirittura potrebbe evitare che mi torni il cancro.
Medicina e dati/informazione/comunicazione: è un’accoppiata d’interesse a più livelli.
Per quanto riguarda le singole categorie di attori coinvolti
- i ricercatori, che hanno bisogno di grandi quantità e qualità di dati, informazioni e comunicazione con tutti gli altri attori per condurre le proprie ricerche;
- i medici, che devono essere in grado di monitorare e gestire grandi quantità e qualità di dati sia per conoscere ciò che sta avvenendo ad ogni paziente, sia per comprendere come questo si incaselli in fenomeni più vasti (per esempio una pandemia), e di agire usando la comunicazione;
- gli infermieri e gli assistenti, che devono essere in grado di avere immediatamente accessibili e disponibili tutti i dati e le informazioni che permettano loro di agire in maniera oculata e di stabilire rapporti significativi con i tanti pazienti;
- i pazienti, che devono essere curati e, nel frattempo, devono avere — accessibili e usabili — i dati e le informazioni che riguardano il proprio stato di salute, e che devono poter usare questi dati e informazioni nella comunicazione, per stabilire rapporti significativi con il personale medico, i propri cari, e magari anche con i propri datori di lavoro, gli amici e gli altri;
- gli amministratori, che devono poter accedere ed usare grandi quantità e qualità di dati per comprendere i processi della sanità e governarli, assicurando il loro funzionamento, la loro accessibilità e utilità, la rispondenza ai bisogni della cittadinanza e a ciò che impariamo costantemente dall’innovazione scientifica e tecnologica, e, non ultimo, la loro sostenibilità economica;
- e tutti gli altri attori coinvolti.
Per quanto riguarda la possibilità di stabilire ponti, come quelli che possono rispondere a quesiti
- “come comunicano ed entrano in relazione medici e pazienti?”
- “come possono i pazienti trarre significato dai dati, dalle informazioni e dalla comunicazione circa la propria malattia, il proprio ruolo nel mondo, nella famiglia, nelle amicizie, nel lavoro, nella cultura, etc?”
- “come e cosa comunicano le amministrazioni e i pazienti?”
- “come avviene la comunicazione e la collaborazione nella ricerca?”
Per quanto riguarda il rapporto con i processi, l’ambiente e le tecnologie, per potersi chiedere:
- come possano i pazienti comprendere cosa stia accadendo loro e dargli un senso, intimamente e con gli altri?
- il perché dell’essere sballottati da una fila all’altra, da un ambulatorio all’altro, da un esame all’altro;
- come le informazioni disponibili nei colloqui medici, nei monitor della sala d’attesa, nei referti, nell’ambiente dell’ospedale e dell’ambulatorio siano in grado di rispondere alle importanti e delicatissime domande che ogni malato si pone, assieme alla propria famiglia e ai propri cari;
- come l’ambiente stesso dell’ospedale e dell’ambulatorio — tramite il design, l’architettura, l’arte, l’alimentazione e le altre discipline — riescano a fornire messaggi coerenti nella direzione della salute e del benessere del paziente;
- come il rapporto con le tecnologie (dal proprio smartphone ai macchinari per la medicina nucleare) possano aiutare pazienti e dottori a costruire senso e comprensione.
Un valore in sé, e il ruolo dell’arte e del design
I dati, l’informazione e la comunicazione hanno valore in sé, e lo possono portare nella società da punti di vista economici, sociali, relazionali, politici, scientifici e altri.
Tutti questi aspetti si manifestano sistemicamente e hanno una propria posizione nell’ecologia dell’informazione e della comunicazione dei sistemi della salute.
Inoltre, tutte queste prospettive diventano potenzialmente problematiche a causa delle particolari condizioni psicologiche e relazionali di tutti gli attori coinvolti, che siano medici e infermieri — continuamente esposti alla sofferenza, e a continuo rischio di burn-out — , sia che siano i pazienti o i loro cari — i protagonisti, purtroppo, della sofferenza.
Bastano una piccola attesa ingiustificata, un uso di linguaggio tecnico poco comprensibile, una eccessiva attesa tra l’esame e il suo risultato/referto, una piccola ingiustizia anche involontaria, o qualsiasi condizione di mancata comprensione o di possibilità di creare senso per causare picchi di ansia, rabbia, preoccupazioni e reazioni che a volte diventano anche violente.
L’arte, la creatività e il design hanno un ruolo nel ristabilire gli equilibri nell’ecologia della comunicazione e dell’informazione della salute.
Potremmo immaginare di partire da un piccolo aspetto: io, sul mio lettino, che faccio la mia seduta giornaliera di protonterapia.
Leggere l’informazione, e i suoi effetti
Io — come ogni altro “io” che passerà da quel lettino — potrei avere sensazioni, esigenze, aspettative, bisogni estremamente differenti dagli altri.
Nella fase preparatoria alla terapia, i dottori mi hanno plasmato sul volto una maschera in materiale termoplastico e un cuscino personalizzati, con estrema precisione. Hanno lo scopo di potersi posizionare nel macchinario sempre nella stessa posizione, col minimo rischio di errore. C’è ovviamente una minima tolleranza, che ti consente per esempio di respirare: ma l’unione della maschera, del cuscino e dell’imaging digitale (le radiografie che ti fanno ad ogni seduta, per fare eventuali micro correzioni) consentono un posizionamento preciso.
La maschera è così aderente che si può indossare praticamente solo ad occhi chiusi. Il che vuol dire che per quel 10–15 minuti del trattamento non si è in grado di vedere.
Questo mi pone in una situazione peculiare. In ogni momento, infatti, non vedendo, ho solo gli altri sensi per tentare di capire cosa mi stia capitando.
A me, per esempio, viene naturale cercare di capire a quali suoni e spostamenti corrispondono quali effetti. Mi interessa soprattutto cercare di capire, momento per momento, quando vengano irradiate le radiazioni, per cercare di capire che effetto abbiano sul mio corpo.
Ma le radiazioni di cui stiamo parlando — che risultano da un piccolo acceleratore di particelle da cui vengono direzionate con precisione in direzione del mio cranio tramite dei campi magnetici — non si vedono, non fanno rumore e non emettono alcun odore.
Questo fatto — questa “presenza” impalpabile, silenziosa, impercettibile, invisibile, che entra dentro di me causando il “bruciarsi” di alcune cellule nel mio cervello, che addirittura possono esplodere, avere in DNA che muta, e tanti altri tipi di effetto — genera sia ansia esistenziale che un fascino irresistibile. È allo stesso tempo una angoscia profonda e un feticcio seducente, per cui forse ancora non abbiamo parole nel nostro linguaggio comune.
Questa invisibilità, questa capacità di sfuggire ai nostri sensi (alcune delle persone che frequentano la zona radioattiva di Chernobyl, per turismo, senso di avventura, o tensione esistenziale, spesso dicono che “senza il dosimetro la radiazione non esiste”), genera un vuoto informazionale che desiderio profondamente riempire: cosa mi sta succedendo?
Al contrario di queste particelle, i macchinari che mi circondano e che fanno tutte queste cose posso percepirli anche ad occhi chiusi, come si descriveva all’inizio dell’articolo. Sono in grado di percepire suoni, spostamenti e susseguirsi di canzoni come se fossero una sorta di mappa della seduta protonterapica, una infografica che mi permette di navigarla.
Questa infografica, però, ha un problema: non c’è la legenda!
Nel senso che non so a quali suoni corrispondano quali azioni e processi. Anzi, quando ci sono i suoni è del tutto probabile che non ci siano le radiazioni, vista la loro silenziosità. E, in ogni caso, non ho modo di saperlo.
Io, personalmente, amerei avere a disposizione una stratificazione aggiuntiva di suoni che mi permettesse di capire quando il mio cranio è colpito dalla radiazione. Magari un suono posizionato in 3D per capire anche in che punto del cranio si stia puntando. O anche una qualche forma di sensazione tattile. Questo perché io amo stare in ascolto di segnali che vengono dal mio corpo, e potermi guardare dentro per cercare di capire quali effetti il mondo abbia su di me e dentro di me.
Però, non tutti sono così.
Posso facilmente immaginare che per alcune altre persone avere a disposizione una tale “audio-grafica” o “tatto-grafica” potrebbe essere un incubo, per cui anche se non ci fossero effetti collaterali percepibili causati dalle radiazioni, potrebbero sorgere nell’immaginazione di queste persone e, quindi, diventare vere. Una profezia che si autoavvera: potendo “sentire” la radiazione, e “aspettandosi” (ed essendo preoccupati) che abbia un effetto sul corpo, il corpo potrebbe facilmente “immaginare” un effetto e crearlo, e questo processo potrebbe facilmente prendere forma vorticosa. Un effetto placebo al contrario.
La soluzione?
Qual è la soluzione giusta?
La soluzione “giusta”, intesa come soluzione unica di tipo “industriale” — ovvero applicabile nella stessa forma in quantità industriali di casi — non esiste.
Siamo, purtroppo, molto abituati ad immaginare i grandi processi come catene di montaggio industriale. Senza un vero motivo che ci obblighi a farlo, in realtà. I modelli economici del passato hanno avuto un tale effetto sulla nostra cultura che è diventato ormai difficile riuscire ad immaginare qualcos’altro. Il ‘900 — l’era delle masse, dell’industria e dei mass-media come la TV — ci ha lasciato questa eredità, che è innanzitutto psicologica, e della possibilità dell’immaginario.
La transizione verso il nuovo secolo costituisce una trasformazione anche in questo senso.
Nel nuovo millennio, fatto di reti, dati e computazione (come l’intelligenza artificiale), la nostra cultura e la nostra attitudine e capacità di immaginare cambierà.
Questa trasformazione è già in corso, e man mano che tutto quello che ci circonda si trasforma in una rete, e noi stessi acquisiremo la tendenza a interpretare tutto quello che abbiamo davanti sotto forma di reti. E alla base di ogni rede c’è la diade, la relazione tra due soggetti, tramite cui si possono costruire tutte le altre.
Per questo, se l’industria era basata sui concetti stessi dell’estrazione e della separazione, la rete è fondata sul concetto di relazione.
L’industra è fondata sul concetto di terapia — la somministrazione amministrativa di un trattamento standard — . La rete è fondata sul concetto di cura — lo stabilire una relazione in cui ci si prende cura l’uno dell’altro, personalizzando — .
Ed è proprio da questo concetto che dovremmo ricominciare, perché con la progressiva trasformazione nel senso delle Culture Digitali, la rete/relazione è e sarà il modo in cui sentiremo, penseremo e immagineremo il mondo: sarà la nostra aspettativa e desiderio.
Non amo molto la dicitura Industria 4.0, infatti. Perché il termine Industria è profondamente inadatto a descrivere la trasformazione che stiamo vivendo. “Industriale” corrisponde all’idea lineare (o linearizzabile) della supply chain, non alla forma della rete complessa verso cui stiamo andando.
Nella Rete il concetto di Relazione diventa fondamentale.
Proprio come lo è il suo fondamento: il Riconoscimento. Senza Riconoscimento non c’è Relazione. Per relazionarmi a te, ti devo riconoscere. C’è in questo termine qualcosa di abituale, di familiare: ti ri-conosco, quindi vuol dire che ti ho già visto. Ma Conoscere ha pure origine composta e complessa: co-noscere, co-gnoscere, gnosis, cognizione, conoscenza di ciò che è misterioso.
Riconoscere è una rivelazione dell’altro: l’accedere a un mistero che si rivela.
Ecco, forse è questo il “segreto” che stiamo scoprendo: che tutte le soluzioni tecniche, amministrative o tecnologiche che possiamo inventare e di cui ci possiamo dotare, non sono nulla se non vanno a braccetto con la possibilità — che deve essere prevista dai sistemi — di poter stabilire relazioni, di potersi riconoscere, di poter ascoltare e di potersi adattare.
Di nuovo sul lettino
Per immaginare come poterlo fare, torniamo sul mio lettino protonterapico, in uno scenario di Design Fiction.
Gli assistenti in sala, mentre mi aiutano a salire e mi fissano la maschera, potrebbero chiedermi, ad esempio, se oltre la musica desidero anche poter fruire di questa audio-grafica: di questo layer di suoni aggiuntivi che sia in grado di facilitare quello stato meditativo cui tanto ambisco durante il trattamento, e di seguirne le fasi, il procedere, l’arrivo delle radiazioni, e così via.
Come potrebbero essere fatti questi suoni? Che forme, tonalità, tipologie, ritmi potrebbero avere?
Il suono e la musica stimolano l’udito, che è un senso molto potente e fortemente collegato alla capacità di indurre stati emotivi, riflessivi, meditatori, o addirittura psichedelici.
Per accorgersene, basta immaginare di guardare un film senza colonna sonora: anche il più cruento e ansiogeno dei film horror, senza audio, potrebbe addirittura fare ridere, o sembrare ridicolo.
Per questo motivo, realizzare una sonificazione dei dati per la mia seduta di protonterapia è una attività delicata che dovrebbe necessariamente risultare da una attività di stretta collaborazione tra medici, psicologi, artisti, designer e con gli stessi pazienti. E, potenzialmente, anche tra tante altre figure, capaci di navigare le culture per identificare quei suoni, segni, simboli etc che siano in grado di massimizzare la probabilità di ottenere effetti positivi e costruttivi (come, ad esempio, la concentrazione, il relax, la possibilità di comprendere l’esperienza e di costruirne una interpretazione che abbia un senso per la persona e le sue relazioni), e che al contempo sia capace di minimizzarne gli effetti negativi (comprensione, ma non stress; concentrazione, ma non angoscia; relax, non apprensione; ed altri).
In questo senso, si potrebbe progettare e agire in maniera attiva, immaginando e costruendo proprio quelle sonorità che fossero capaci di stimolare l’essere umano in modo da modificare gli effetti e gli impatti che queste emozioni così forti possono avere sulle persone e sulle loro relazioni con la medicina, con le apparecchiature tecnologiche, con le persone, con l’ambiente.
Dal Design Fiction alla Realtà Operativa
Per farlo con la scalabilità che sarebbe necessaria per inserire queste pratiche in un sistema sanitario grande e complesso come quelli di cui siamo dotati, manca ancora un tassello: i dati e la computazione.
Perché in questo scenario sarebbe già problematico, senza assistenza tecnologica, stabilire questo tipo di relazioni di cura con 4 o 5 pazienti: il carico — in termini di risorse e lavoro — sarebbe già grandissimo.
Con le centinaia o migliaia di pazienti che ogni struttura sanitaria anche non enorme si trova ad assistere ogni giorno, semplicemente non sarebbe possibile.
Per questo serve un assist tecnologico, che potrebbe venire da un concetto rinnovato di dati e computazione, perché gli interventi così personalizzati come quelli che stiamo descrivendo potrebbero avvenire su popolazioni vaste soltanto stabilendo nuove alleanze con agenti computazionali (IA) capaci di svolgere queste attività in maniera personalizzata sia sulla base dei dati personali della persona, che sulla conoscenza che deriva dal poter avere conosciuto i dati di enormi quantità di altre persone.
I dati non sono più quelli di una volta
È già tanto tempo che abbiamo imparato che i dati non sono più solo “cose da contare”. I dati, oggi, sono anche i comportamenti delle persone, i loro corpi, le loro posizioni, le loro emozioni, espressioni e relazioni.
Quando avviene una trasformazione di questo genere, è una cosa degna di nota: i dati non sono più importanti perché si possono contare, ma perché ci si possono trovare dentro delle forme ricorrenti.
È questo il segno dell’importanza dell’Intelligenza Artificiale, perché l’IA non fa altro: cerca forme ricorrenti nei dati, come noi potremmo immaginare di trovare un volto in una nuvola.
Di solito, in queste investigazioni, i dati corrispondono a processi estrattivi.
- Il dato viene “estratto” dal corpo delle persone: dai loro comportamenti, dalle loro immagini, dal loro rapporto con le tecnologie e con l’ambiente
- poi viene processato, nella separazione di qualche laboratorio o data center,
- per poi essere interpretato da altri soggetti — ricercatori, medici, infermieri, amministrativi… —
- al fine di prendere decisioni — quale terapia proporre, per quanto tempo, con quali risultati, o come modulare la spesa in tecnologie e medicine, etc —.
- Queste decisioni poi vengono applicate al paziente — quale protocollo applico in questo caso, che somiglia a questi di questa categoria X? —
- o alla comunità — per esempio nel caso della spesa sanitaria, per cui si monitorano storicamente demografia, spese, impatti insieme ai risultati dell’innovazione scientifica e tecnologica per scegliere come distribuire le spese del sistema sanitario — .
In ognuno di questi casi, al “sistema” non importa realmente che io mi chiami Mario Rossi o Giuseppe Marroni.
Piuttosto interessa la possibilità di classificarci in un numero discreto di categorie e, tramite enormi quantità di dati, di capire come queste categorie rispondano a diversi tipi di trattamenti, per sapere quali predisporre, quante medicine di ogni tipo comprare, quanti macchinari rendere disponibili per organizzare al meglio l’offerta di radiografie, risonanze magnetiche, radioterapie, dialisi eccetera. Ognuno di noi appartiene a centinaia di queste categorie, di interesse del sistema sanitario e previdenziale, della banca, dell’assicurazione, del nostro datore di lavoro, dei social network, degli operatori commerciali, e così via.
A nessuno interessa chi io sia. A tutti interessa che io appartenga a quella categoria lì, studiata dalla scienza in milioni di casi, tramite cui si è riusciti a decretare, per ora, che io è meglio che faccia 30 o 33 sessioni di protonterapia, e la chemioterapia dopo qualche settimana.
È la scienza, e per fortuna che esiste: ci permette di fare uno sforzo planetario collaborativo e peer-reviewed che ci consente di imparare progressivamente, di non brancolare nel buio e di essere meno fragili ed esposti all’ultimo venditore di “miracolosi” unguenti che ci prenda di mira, o all’ultimo politicante in cerca di voti facili.
Quando, però, i dati diventano così tanti e di così tanti tipi diversi — iniziando a diventare dati psicologici, relazionali, culturali, emozionali eccetera — il gioco diventa pericoloso non solo per la complessità di determinare come tutte queste variabili di tutti questi tipi diversi interagiscano tra loro, ma anche e soprattutto perchè avere il controllo di tutti questi dati sulle persone infuisce sulla nostra possibilità di poter godere dei nostri diritti e delle nostre libertà.
D’altra parte, come stavamo ipotizzando nell’articolo, questo tipo di interventi (andando anche ben oltre la mia personale esperienza del lettino della terapia) sarebbero molto importanti perché avrebbero il potenziale di aumentare enormemente il benessere fisico, psicologico, relazionale e sociale delle persone. E, nella fattispecie di questo articolo, dei pazienti.
Per farli su larga scala sarebbe importante poter utilizzare dati e agenti computazionali quali le IA, capaci analizzare grandi quantità di dati culturali, emotivi, comportamentali e psicologici, per generare ponti tra medici, pazienti e tutti gli altri attori coinvolti, e per generare informazione, comunicazione, sensazione e relazione.
Come riuscire a stabilire questa nuova alleanza con gli agenti computazionali in modo da minimizzare derive estrattive e da massimizzare i processi generativi?
Questo è un grande nodo da sciogliere. Forse tra i più grandi del nostro tempo. Perché, in maniera molto simile al semplice caso presentato in questo articolo, questa metodologia può essere applicata alla diagnostica, alla ricerca sulle terapie personalizzate e a tanti altri ambiti molto importanti.
Un Nuovo Abitare
Noi, come artisti e ricercatori, ci stiamo provando inventando un nuovo tipo di centro di ricerca, che si occupi di questo possibile Nuovo Abitare.
Serve un cambio di approccio. Abbandonando il paradigma estrattivo, trasformandolo in uno esistenziale, secondo cui i dati sono elemento esistenziale del soggetto che, in quanto tali, può deciderne, condividerli, usarli per esprimersi eccetera. E creando una nuova forma di alleanza tra esseri umani e attori non umani (ad esempio computazionali e dell’ambiente), volta ad acquisire nuove sensibilità e capacità di relazione.
In questa nuova alleanza, gli agenti computazionali non sono più concepiti secondo i paradigmi della separazione, ma secondo quelli della relazione e dell’organicità: si posizionano secondo una nuova cosmologia che informa la progettazione dei rituali della nostra nuova quotidianità.
Una nuova cosmologia abilitata dalla collaborazione tra scienze, tecnologie, società, design e arte.
Il nostro centro di ricerca (che sta anche per cambiare nome: da HER — Human Ecosystems Relazioni a HER: She Loves Data) si occupa proprio di questo: dei Rituali del Nuovo Abitare, studiando questo nuovo rapporto tra tutti i diversi tipi delle nostre quotidianità, i dati e la computazione: in casa, nel condominio, nello spazio pubblico, nella scuola, nell’ufficio, in un ospedale o su un lettino di protonterapia.
Anche il piccolo esercizio di questo articolo mi ha permesso di esplorare opportunità, limiti e criticità di una nuova possibile ritualità in cui i dati — miei e di altri — da fenomeno estrattivo si trasformano in un fenomeno generativo, con un valore che va ben oltre il caso specifico, perché mostra un possibile modo di procedere.
Stiamo documentando questa trasformazione con la serie di articoli che costituiscono gli appunti aperti per la creazione del nostro nuovo centro di ricerca. Siete tutti vivamente invitati a prendere parte a questo processo.
Un sincero ringraziamento va al Centro di Protonterapia di Trento, presso cui sono in cura in questi giorni, al suo Direttore Maurizio Amichetti, al Dottor Dante Amelio, il medico che mi segue, e a tutto lo staff, agli infermieri, gli assistenti e l’amministrazione.
Uso qui il termine “cura” non a caso: nel centro si stringono relazioni vere. In questi giorni di terapia, tra una radiazione e l’altra, si è parlato di tecnologia, arte, politiche pubbliche, gli impatti sulla scienza, di lavoro, di cucina, delle bellissime montagne e valli del Trentino, e di tante altre cose, dimostrando che per potersi prendere cura gli uni degli altri è importante conoscersi e relazionarsi a tutto tondo.