What is Real?

una piccola recensione per un grande libro

Salvatore Iaconesi
10 min readMar 11, 2022

Ho appena finito di leggere “What is real? The unfinished quest for the meaning of quantum physics” di Adam Becker.

È un libro straordinario. Nonostante il tema, che di solito non è molto accessibile, riesce ad essere un libro avvincente e mi sono trovato più volte a chiedermi chi fosse l’assassino. Ahem… ovvero, chi, alla fine, sarebbe riuscito a “sconfiggere” l’interpretazione di Copenhagen.

Ma procediamo con ordine.

È da un po’ di tempo che mi appassiono di fisica quantistica. Guardandosi intorno la si trova molto spesso citata a sproposito. Citazioni di “quantistica” (notate le virgolette) si trovano negli articoli di innovazione sociale, come strumento argomentativo di deliri fricchettoni, come giustificazione di improbabili discussioni sulla complessità e anche nell’arte, tantissimo, spesso associata a parole come incertezza e indeterminazione. Insomma, un bel minestrone.

Ho studiato fisica e chimica a Ingegneria, ma la quantistica era solo sfiorata alla fine dei programmi, pronta per essere approfondita negli esami successivi, e non sicuramente a Ingegneria Informatica e Automatica. Da quei primi anni di Ingegneria devo ammettere che le mie nozioni di quantistica si erano molto arrugginite. E, in buona sintesi, quando ben presto mi sono trovato anch’io a citare a sproposito il principio di indeterminazione di Heisenberg (mischiato non mi ricordo più a che cos’altro) sono immediatamente inorridito!

Mi sono rimesso a studiare. Anche perché la fisica quantistica inizia ad essere più utile e presente che mai: con qualche probabilità sarà il prossimo passo di evoluzione culturale e concettuale dell’essere umano, subito dopo l’intelligenza artificiale. La quantistica, insieme alla fusione (non ci scordiamo la Scala di Kardašëv), alla “terza vita” e all’adozione di immaginari sensibili ed ecosistemici, invece che estrattivi, sono le cose su cui puntare per ottenere dei cambiamenti di paradigma.

Messo che riusciremo a non autodistruggerci prima, come stiamo rischiando di fare in questi giorni.

E, quindi, in questi giorni, sto passando di manuale in manuale e di saggio in saggio. Studiare, dedicare del tempo alla conoscenza, all’ecologia e a condividere con gli altri quello che imparo, mi sembra una ottima e costruttiva rivoluzione: anche io sono sul fronte.

Gli ultimi più recenti testi di quantistica che ho letto sono il meraviglioso “Wholeness and the Implicate Order” di David Bohm e proprio questo “What is real?” di Becker.

Il primo è praticamente un manuale di fisica quantistica. Pieno di formule, mi ha obbligato a tirare fuori differenziali e integrali. Estenuante e bellissimo. Ci ho messo più di un mese a leggerlo e studiarlo, e alla fine sono stato premiato, quando Bohm, nelle ultime pagine, ci narra un possibile parallelo tra arte e scienza:

“… one may then have to see the irrelevance of old differences, and the relevance of new differences, and thus one may open the way to the perception of new orders, new measures and new structures. […] such perception can appropriately take place at almost any time, and does not have to be restricted to unusual and revolutionary periods in which one finds that the old orders can no longer be conveniently adapted to the facts. Rather, one may be continually ready to drop old notions of order at various contexts […] and to perceive new notions that may be relevant in such contexts. Thus understanding the fact by assimilating in into new orders can become what could perhaps be called the normal way of doing scientific research. To work in this way is evidently to give primary emphasis to something similar to artistic perception.”

Questa citazione (e l’intera vicenda di Bohm) è perfetta per iniziare a parlare del libro di Becker.

What is Real? di Adam Becker racconta in modo molto avvincente la storia della fisica quantistica. È una risorsa importantissima per comprendere lo sviluppo delle teorie scientifiche.

Sì, perché quando si studia, per esempio, la quantistica a scuola o all’università, molto spesso si inizia dalle formule e non dalle persone che stanno dietro quelle formule.

Questa è stata, per esempio, la mia esperienza. I miei professori di fisica e di chimica a Ingegneria sono arrivati là e mi/ci hanno detto, praticamente “tié ‘ste formule: questo è come funziona il mondo.”

E, c’è da dire, fino a prova contraria, il mondo funzionava, almeno per quanto potessi approfodire io tra gli esercizi di fisica in cui improbabili elefanti sui pattini viaggavano su vagoni dei treni attaccati a delle molle di cui si doveva calcolare l’estensione.

Figuriamoci quando si parlava di quantistica! Senza un’idea circa quali fossero le intuizioni, le derivazioni teoriche e, soprattutto, senza un focus sugli orientamenti filosofici nel mondo e senza raccontare gli immaginari delle diverse comunità di ricerca in giro per il pianeta, la quantistica rimaneva una roba astratta, calata nel vuoto. “Zitto e calcola!” (il famoso “Shut up and calculate!” di David Mermin che ha un grande ruolo in questa storia).

What is Real? fa proprio questo.

È la storia della fisica quantistica. L’etnografia della quantistica. La sociologia della quantistica. L’ecologia della quantistica, nel senso della descrizione storica delle comunità di ricerca, dei loro rapporti, dei loro giochi di potere, influenza, carisma, ruolo, e di come queste interazioni complesse hanno direzionato la ricerca a livello internazionale tanto quanto le vite di molti singoli ricercatori che sono stati innalzati su podi, che hanno vinto premi Nobel, ma che sono stati anche ingiustamente derisi, resi reietti e allontanati dalla ricerca perché non aderivano all’ortodossia vigente.

Genio e influenza

Leggete il libro, che merita. Qui non farò spoiler. Uso questa parola, spoiler, forse impropriamente, ma perché veramente ho trovato questo libro appassionante nel seguire una storia con tantissimi personaggi, intessuta tra le comunità di ricerca europee e poi statunitensi e internazionali.

Tra i primi personaggi appassionati che si incontrano sono John von Neumann, Niels Bohr e naturalmente Albert Einstein.

Il primo, riconosciuto apertamente come un vero e proprio genio della matematica, tanto che si faceva difficoltà a metterne in discussione gli enunciati. Se l’ha detto/dimostrato von Neumann vuol dire che è vero. Una autorevolezza quasi assoluta che, vedrete nel corso del libro, giocherà un ruolo nella storia: una sua dimostrazione — che però conteneva una ingenuità — sarà usata sistematicamente per giustificare la validità della cosiddetta interpretazione di Copenhagen.

E qui, a Copenhagen, entra in scena Niels Bohr, un personaggio influente e carismatico. Nonostante (e/o forse proprio perché) ciò che dicesse e scrivesse fosse spesso incomprensibile e vago. Vengono riportati diversi testi e riferimenti in cui ciò è evidente: devo approfondire questo personaggio, perché mi sembra una tipologia di leadership, in grado di accentrare su di sé grandi quantità di potere e influenza. È il fondatore della scuola di Copenhagen e del principio di complementarietà, che tanto attrito provocherà con Albert Einstein e tanti altri:

“Il nostro compito non è penetrare l’essenza delle cose, di cui peraltro non conosciamo il significato, ma sviluppare concetti che ci permettano di parlare in modo fruttuoso dei fenomeni naturali.” (Dalla lettera a H.P.E. Hansen del 20 luglio 1935; citato in Abraham Pais, Ritratti di scienziati geniali, Bollati Boringhieri, 2007, p. 37.)

Praticamente una prima evidenza dell’impostazione “shut up and calculate!”: non ce ne frega nulla di ciò che non conosciamo, ci interessa solo che le formule riescano a fare delle previsioni accurate. Stai zitto e calcola!

E il terzo personaggio non ha bisogno di introduzione: Einstein già all’epoca era una celebrità. Fin dall’inizio del libro, Einstein viene affiancato a un altra celebrità: Erwin Schrödinger che, insieme a Heisenberg, è uno dei teorici più e peggio citati della storie; il suo famoso gatto ce l’ho anche su una maglietta.

Proprio l’esempio del gatto, diceva Schrödinger — e Einstein era d’accordo — , rappresenta un problema: il gatto non può essere simultaneamente vivo-e-morto. Molti suoi contemporanei sostenevano che il gatto fosse in uno stato di vita-e-morte fino all’apertura della scatola. Altri sostenevano che non avesse senso parlare dell’interno della scatola, in quanto inosservabile e non misurabile. Schrödinger era preoccupato di un’altra cosa: di come la fisica quantistica, all’epoca, fosse carente della spiegazione dell’emergere delle “cose del mondo”. Come fanno questi numeri fenomenali di “atomi” governati dalla fisica quantistica a far emergere ciò che vediamo intorno a noi?

Einstein condivideva questa preoccupazione, tanto che i dibattiti tra Einstein e Bohr sono diventati leggendari.

Ma la fisica quantistica funzionava, e con molta precisione: faceva previsioni accurate, indipendentemente dalle spiegazioni. E i fisici la usavano: zitto e calcola!

Fisica e Filosofia

Tutto questo avveniva prima della II Guerra Mondiale, e proprio nella Guerra avrà una svolta.

Nel periodo antecedente il conflitto, Bohr e Heisenberg coniarono l’interpretazione di Copenhagen nella scuola omonima, circondati dai più autorevoli fisici del mondo — Wolfgang Pauli, Max Born, Pascal Jordan e tanti altri, molti dei quali erano studenti di Bohr — , secondo cui la quantistica esiste solo in maniera astratta: secondo i danesi la quantistica serve solo a calcolare la probabilità dei risultati degli esperimenti. Non esiste un mondo quantistico.

Einstein chiamava questa interpretazione una filosofia tranquillizzante.

L’interpretazione di Copenhagen, protetta dal carisma di Bohr e dall’autorevolezza della dimostrazione di von Neumann, regge, nonostante nel 1935 Grete Hermann, donna e outsider, l’avesse già messa in discussione.

Questa è la situazione che si mantiene stabile i quegli anni: qualsiasi interpretazione alternativa viene subito dismessa con poca attenzione. Non perché sia effettivamente migliore o peggiore: quasi per lesa maestà. Che siano le variabili nascoste, la pilot-wave, la famosa pubblicazione EPR (Einstein-Podolski-Rosen), nonostante andassero in direzioni interessanti, volte a integrare la quantistica col resto del mondo il problema della misurazione, al centro delle polemiche, rimaneva intoccabile: perché le equazioni di Schrödinger valevano solo quando qualcuno misurava qualcosa?

Questo paradosso ne introduceva automaticamente altri: cosa vuol dire “qualcuno”? Cos’è uno strumento di misurazione? Come si relazionano il piccolo e il grande? E tanti altri, alla base della nostra concezione del mondo.

Intere carriere sono state distrutte in questo modo. Chiunque osasse mettere in dubbio Copenhagen e/o i fondamenti accettati della fisica quantistica veniva allontanato. Bohm — e il suo implicate order — .Bell —con il suo teorema/disuguaglianza —fu deriso. Zeh — e la sua decoerenza — . Chiunque si avvicinasse a criticare l’interpretazione di Copenhagen, anche se la dimostrazione di von Neumann iniziava ampiamente a scricchiolare, veniva allontanato (come Bohm, costretto a emigrare in Brasile, lontano dall’azione).

Nel bel mezzo di tutto questo, la II Guerra Mondiale (e la Bomba Atomica) segna un evidente spartiacque.

La fisica diventa immediatamente un tema strategico. I soldi piovono. Dopo la guerra gli iscritti universitari aumentano esponenzialmente: la fisica è sexy e fa guadagnare. La Bomba Atomica ne è il feticcio e il veicolo. La società dopo la Guerra è incentrata sulla possibilità di controllare l’energia dell’atomo.

In questo, per i militari e i complessi industriali diventa evidentemente importante l’approccio dello shut up and calculate! Non ci si fanno troppe domande e si va dritti dritti alla ricerca dei risultati concreti. (Nota: ricorda molto il modo attuale in cui si ha a che fare oggi con l’Intelligenza Artificiale, i dati e, in generale, la computazione. Impareremo mai? È possibile imparare?)

In quel contesto il positivismo logico avviato anni prima nel Circolo di Vienna aperto da Ernst Mach e continuato dai suoi successori era l’humus perfetto su cui poggiare questo approccio.

L’empirismo insito nell’approccio positivista conduceva linearmente all’approccio dello “zitto e calcola!”. La Guerra abbassò ulteriormente, almeno nelle fasi immediatamente successive alla sua fine, la relazione tra fisica e filosofia: se non esiste un mondo quantistico, e la quantistica serve solo a calcolare le probabilità dei risultati degli esperimenti, non c’è quasi bisogno della filosofia.

C’era bisogno di tanti fisici per la guerra, le bombe, l’energia, le nascenti applicazioni mediche, per tutto. La teoria e la filosofia non erano più al centro: militari e industria volevano i risultati. Zitto e calcola!

Cosa avviene dopo

Il cosa avviene dopo ve lo lascio completamente da scoprire, ed è altrettanto emozionanti di ciò che abbiamo raccontato fino ad ora. Figure come Bell, Bohm e Everette la sua interpretazione dei many worlds — e la caduta del positivismo logico hanno aperto altre strade, inclusa quella potenzialmente straordinaria del quantum computing. Nonostante questo, l’interpretazione di Copenhagen rimane dominante.

David Albert, noto tra le altre cose per essere stato quasi espulso dalla Rockefeller University di New York per aver messo in discussione Copenhagen, descrive così la situazione:

“You have, at the same time, the following two wildly contradictory things going on: the 20th centrury outstripped every other century… for the number of smart people who were interested in physics and working actively on physics. That same century witnessed the longest period of psychotic denial of this deep logical problem right at the center of this whole project.”

“Psychotic denial”: stato di rifiuto psicotico. Forse un po’ esagerato, ma rende bene l’idea.

Perché, in finale, mi è piaciuto questo libro

Innanzi tutto, ho imparato tantissime cose, che spero che imparino anche altre e altri.

E poi c’è anche un motivo più generale, che risuona anche oggi, in quello che è il mio lavoro, ed è il concetto di realismo dominante. Che è una forza potentissima.

Questo libro comunica benissimo come è avvenuto nella storia della fisica quantistica, con una potenza quasi insormontabile: ci sono ancora tanti libri di testo che sostengono che il teorema di Bell dimostri l’interpretazione di Copenhagen.

Il realismo dominante è quel convergere di condizioni, poteri, abitudini, culture, approcci filosofici, sensi di appartenenza che rendono praticamente impossibile sfidare una narrativa dominante.

È quella convergenza di fattori che trasforma le parole che escono da bocche e penne, che non sono aderenti al realismo stesso. Che le rimuovono. Che non le percepiscono come scientifiche, o strategiche, o che non le capiscono perché hanno un vocabolario differente. Che ne cambiano il significato.

Mostrando gli ecosistemi relazionali dei ricercatori disposti nelle diverste comunità (a volta fazioni) di ricerca, le loro interazioni, le loro lettere, le loro conferenze, il loro ospitarsi a vicenda, il libro di Becker riesce a immergerci in una scienza che non è astratta o chiusa in un laboratorio, ma che è costruita proprio su queste relazioni, incontri e comunicazioni.

Un intenso reticolo che, lentamente o bruscamente, con una guerra, una conferenza o anche a distanza di decenni, trova nuove disposizioni e nuove opportunità.

Una cosa interessante, in questo tipo di scenario, è la possibilità di riflettere sul ruolo idee, che rimangono vive solo se performate (nel senso di rese vive attraverso l’interazione con gli altri, con la relazione) o solo nel caso dell’archivio: la relazione tra psicologia e archivio nella scienza, chi decide il dentro e il fuori?

L’ecologia delle idee, come tutte le ecologie, è una scienza delle relazioni complesse. E, quindi, è su questo piano che occorre condurre le iniziative per contrastare le situazioni di realismo dominante: la comunicazione ecosistemica, che si pratica innanzitutto sentendo/ascoltando (la fase senza cui la relazione è impossibile) e poi irradiando (ovvero senza necessità di bombardare nessuno).

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